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Estratto dal capitolo 1
«È questo il posto?» chiese una voce piena di scetticismo.
«Sì, ti dico! Smettila di contraddirmi.»
«Ragazze, buone» le richiamò Meg, fissando l’edificio a tre piani, che circa un secolo prima doveva essere stato un albergo di lusso. Forse quella strada un tempo era la principale. Ora invece versava in totale stato d’abbandono e accanto all’ex-hotel vi erano solo magazzini e rimesse.
«L’ultima volta ci ha portate a perderci» riprese la prima voce con tono lamentoso.
«È successo solo una volta, Charlinne! E le indicazioni sbagliate le avevi prese tu!» berciò l’altra, infastidita.
Meg si voltò verso le sue compagne di lavoro, persone così diverse tra di loro che era quasi impossibile immaginarle insieme, segretamente divertita dalle loro solite scenette.
Alla guida della macchina su cui si trovavano c’era Suzanne, un’aspirante étoile dall’aspetto glaciale, piccola, esile, bionda e con occhi tanto azzurri da mettere i brividi; sul sedile posteriore c’era Charlinne, la ragazza più dolce e schietta che Meg avesse mai conosciuto, con un difficile passato da ex-tossica.
Loro tre non avevano nulla in comune, in un’altra vita probabilmente non si sarebbero mai nemmeno incontrate. Nella vita che conducevano adesso, invece, trovarsi era tutto ciò che le aveva mantenute integre. C’era una cosa che le univa ormai indissolubilmente ed era il motivo per cui erano lì, in quella strada isolata, di fronte a un edificio fatiscente, all’una del mattino.
«Entriamo» decretò Suzanne, scendendo dall’auto e aprendo il portabagagli. La luna e i fari della macchina erano tutta l’illuminazione presente in quella zona. I pochi lampioni erano stati usati probabilmente come bersagli per il tiro a segno, visto che erano tutti più o meno distrutti. Era un pessimo luogo in cui trovarsi, ma loro non ci avevano quasi badato.
«Io non la sopporto» brontolò Charlinne e Meg, sorridendole, le tirò un codino per gioco. «Sì che la sopporti, altrimenti non le salveresti sempre il culo. Ora andiamo.»
«Guardate che vi sento! Svelte» le esortò Suzanne con un tono da sergente-istruttore.
«Quella non fa la ballerina, secondo me è stata nell’esercito» la prese in giro Charlinne e la bionda la fucilò con lo sguardo, poi estrasse una balestra e la porse a Meg, raccomandandosi: «Stiamo attente.»
Lei annuì e, sbirciando nel portabagagli, prese alcuni paletti rinforzati in metallo ma con cuore di legno, e uno stiletto a lama lunga. Charlinne, che aveva messo il broncio come una bambina, si armò svogliatamente, tanto che Suzanne per poco non la decapitò quando chiuse lo sportello con un gesto stizzito.
La bionda, pistola alla mano, sferrò un calcio al portone marcito dell’albergo, che si sbriciolò. Entrarono, illuminando l’interno con delle torce montate sugli avambracci. La hall era di uno squallore incredibile, la polvere avvolgeva ogni cosa, topi e scarafaggi zampettavano per nascondersi dalla luce e la puzza di marcio era insopportabile.
Charlinne si guardò intorno e mormorò: «Cavolo, anche per dei vampiri questo è cattivo gusto.» Poi si schiarì la voce e gridò: «Ehilà, c’è nessuno?»
«Zitta!» le sibilò contro Suzanne, ma Meg si corrucciò e constatò: «È strano. Se ci fossero stati dei vampiri ci avrebbero già sentite e attaccate.»
Le tre si scambiarono uno sguardo, quindi Charlinne indicò una porta chiusa e con espressione disgustata girò la maniglia umidiccia.
La porta non fece nemmeno in tempo ad aprirsi che una creatura dai movimenti rigidi e sincopati si accasciò sulla ragazza, che istintivamente la pugnalò con un paletto, strillando e imprecando a viva voce. Non era affatto piacevole trovarsi così vicino a un corpo putrefatto.
«Stai giù!» le urlò Suzanne, sparando allo zombie dritto in testa, facendone esplodere gran parte.
Meg, che aveva colto un movimento da un’altra stanza, gridò: «Ce ne sono altri! Sono zombie, non vampiri!»
«Ho un’idea. Voi restate qui» comandò Suzanne, passando la pistola a Meg e impugnando la sua inseparabile spada dalla lama a doppio filo. Charlinne le raggiunse, facendo versi e smorfie schifate all’indirizzo dei propri vestiti, completamente rovinati dai liquami zombie.
Suzanne entrò nella stanza gremita di quelle creature, non troppo intelligenti a dire la verità, e mettendosi sulle punte iniziò a muoversi. Piroettava, saltava e al tempo stesso decapitava qualunque cosa le capitasse a tiro. La spada, forgiata su misura per lei, sembrava non avere peso tra le sue mani.
I corpi decapitati crollavano a terra, ma continuavano a muoversi, contorcendosi come una coda di lucertola staccata di netto dal corpo. Era così con gli zombie, morivano, o meglio smettevano di muoversi – perché morti lo erano già – solo se veniva loro sparato in testa. Era come se non potessero fermarsi finché il cervello era illeso, anche con il capo staccato.
Charlinne rivolse un sorriso alle teste putrescenti e, prendendo la mira, iniziò a sparare. «Adoro il tiro a segno!»
Meg non rise, non sorrise nemmeno. Le facevano pena quelle creature, controllate da qualcuno che aveva preso i loro corpi e aveva deciso di comandarli, come se fossero state bambole di pezza e non persone. Erano burattini, privi di coscienza o volontà propria, con l’unico impulso di divorare carne umana appena la vedevano. Al contrario di ciò che si credeva, non esisteva alcun morbo zombie, solitamente erano cadaveri riportati in vita da negromanti o demoni, che li usavano per i propri scopi e poi li abbandonavano in attesa che si putrefacessero.
Meg serrò i denti e cominciò anche lei a fare esplodere cervelli, mentre Suzanne ballava e decapitava.
«Stai giù!» le urlò Suzanne, sparando allo zombie dritto in testa, facendone esplodere gran parte.
Meg, che aveva colto un movimento da un’altra stanza, gridò: «Ce ne sono altri! Sono zombie, non vampiri!»
«Ho un’idea. Voi restate qui» comandò Suzanne, passando la pistola a Meg e impugnando la sua inseparabile spada dalla lama a doppio filo. Charlinne le raggiunse, facendo versi e smorfie schifate all’indirizzo dei propri vestiti, completamente rovinati dai liquami zombie.
Suzanne entrò nella stanza gremita di quelle creature, non troppo intelligenti a dire la verità, e mettendosi sulle punte iniziò a muoversi. Piroettava, saltava e al tempo stesso decapitava qualunque cosa le capitasse a tiro. La spada, forgiata su misura per lei, sembrava non avere peso tra le sue mani.
I corpi decapitati crollavano a terra, ma continuavano a muoversi, contorcendosi come una coda di lucertola staccata di netto dal corpo. Era così con gli zombie, morivano, o meglio smettevano di muoversi – perché morti lo erano già – solo se veniva loro sparato in testa. Era come se non potessero fermarsi finché il cervello era illeso, anche con il capo staccato.
Charlinne rivolse un sorriso alle teste putrescenti e, prendendo la mira, iniziò a sparare. «Adoro il tiro a segno!»
Meg non rise, non sorrise nemmeno. Le facevano pena quelle creature, controllate da qualcuno che aveva preso i loro corpi e aveva deciso di comandarli, come se fossero state bambole di pezza e non persone. Erano burattini, privi di coscienza o volontà propria, con l’unico impulso di divorare carne umana appena la vedevano. Al contrario di ciò che si credeva, non esisteva alcun morbo zombie, solitamente erano cadaveri riportati in vita da negromanti o demoni, che li usavano per i propri scopi e poi li abbandonavano in attesa che si putrefacessero.
Meg serrò i denti e cominciò anche lei a fare esplodere cervelli, mentre Suzanne ballava e decapitava.